Introduzione e Parte terza del D.Lgs.152/2006
A cura del Dott. Francesco Nannetti
In tempi in cui procede la revisione di alcune parti del Testo Unico ambientale approvato dal governo di centrodestra in uno dei suoi ultimi “respiri” (senza che tuttavia si sia deciso, come le tempistiche avrebbero ben consentito, di abrogare l'intero provvedimento legislativo o almeno sospenderne l'efficacia), con maggiore serenità si può procedere, come si prefiggono di fare queste note, ad identificare quali fonti ed in quale misura sono intervenute ad ispirare la stesura di questo testo controverso.
In particolare, la maggior parte delle considerazioni che si vogliono qui sviluppare partono dal confronto tra le novelle apportate dal D.Lgs.152/2006 alle preesistenti norme, e le proposte industriali che la maggiore associazione di categoria del settore, Confindustria, aveva formalizzato in un documento del Maggio 2005. L'analisi (che non pretende ovviamente di essere esaustiva) può consentirci di misurare il peso che gli industriali - attori di una dialettica necessaria ed opportuna con il legislatore ma non propriamente difensori dell'ambiente per missione – hanno esercitato sul processo di formazione della legge: aspetto di interesse anche alla luce del fatto che su questo testo è stata sottolineata a più voci la scarsità o assenza di confronto non solo con le associazioni ambientaliste, ma finanche con le Regioni e gli enti locali.
Come noto, il D.Lgs.152/2006 ha ridisegnato l'intera materia ambientale, con particolare riferimento alla tutela delle acque, alle emissioni in atmosfera, alla gestione dei rifiuti, alle bonifiche, alle norme in materia di VAS, VIA ed IPPC ed al danno ambientale. I medesimi argomenti sono affrontati da Confindustria, in sette capitoli e un'appendice, che individua tutta una serie di carenze e criticità della normativa allora vigente, e mette a punto proposte e suggerimenti di cui chiede il recepimento nel TU in discussione.
Sulla parte generale, emergono i seguenti obiettivi principali degli estensori, poi ribaditi e declinati anche nei capitoli relativi alle norme di settore:
a) Il giudizio di severità sulle norme italiane, che recepirebbero le direttive CE introducendo vincoli ulteriori, genera la richiesta di un allineamento agli standard europei limitando a casi eccezionali i vincoli più restrittivi;
b) Un ruolo del governo centrale più accentuato limitando i poteri delle Regioni e degli altri enti;
c) La previsione di agevolazioni amministrative per le imprese certificate, argomento cui è dedicata l'appendice del documento;
d) Una profonda revisione del sistema delle norme tecniche, svincolandole dai testi di legge e dall'emanazione con decreti ministeriali ed assegnandone la predisposizione ad organi tecnici (come APAT) o di unificazione normativa (UNI);
e) Rivedere il sistema dei controlli e delle sanzioni.
Ci riserviamo di ritornare su questi punti al termine della nostra analisi, in modo da poterne meglio comprendere il significato e l'eventuale attuazione nel TU in oggetto, dopo aver esaminato invece il confronto, settore per settore, cominciando, in questo primo contributo, dal tema delle acque.
Parte terza del D.Lgs.152/2006 (Norme in materia di difesa del suolo e lotta alla desertificazione, di tutela delle acque dall'inquinamento e di gestione delle risorse idriche)
Come noto, la parte terza del testo unico ambientale si propone di disciplinare in un'unica fonte normativa il complesso delle norme riguardanti, in generale, la materia delle risorse idriche e della correlata difesa del suolo. La portata innovativa di questa parte del decreto è veramente minima, in quanto il testo si configura come una sorta di “collage” tra le tre norme quadro di settore previgenti:
la L.183/1989 sulla difesa del suolo, sulla cui falsariga è basata la Sezione I di questa parte del decreto;
il D.Lgs.152/1999 sulla tutela delle acque dall'inquinamento, sulla cui falsariga è scritta la Sezione II di questa parte del decreto;
la L.36/1994 (c.d. Legge Galli) sulla gestione delle risorse idriche in relazione all'organizzazione del servizio idrico integrato, su cui si basa la Sezione III del decreto.
(Segue poi una Sezione IV di disposizioni transitorie e finali, nella quale sono anche stabilite le abrogazioni, tra l'altro, delle tre sopracitate norme di settore.)
Premettiamo che la parte relativa alla difesa del suolo, di scarso interesse industriale, non rileva molto al fine di questa analisi. In ogni caso la più rilevante modifica riguardava la soppressione delle Autorità di bacino, sostituite con Autorità di bacino distrettuali (laddove i distretti idrografici sono costituiti dall'unione di più bacini) e la corrispondente sostituzione del Piano di bacino con quello di bacino distrettuale. I recenti interventi legislativi (D.Lgs. 8 novembre 2006, n. 284) hanno già prorogato la “vita” delle vecchie Autorità di bacino, come richiesto da Regioni ed enti locali, in quanto le stesse erano state soppresse (art.63 c.3) prima ancora che fossero operative le nuove Autorità, con la logica conseguenza di un inaccettabile vuoto operativo.
Altra modifica importante è la riduzione del Piano di tutela delle acque a Piano di settore, e non più Piano stralcio del Piano di bacino, considerata dalle autonomie regionali e locali come una diminuzione del potere prescrittivo di questo, non più sovraordinato agli strumenti urbanistici e comunque privo del valore di piano territoriale come, appunto, il Piano di bacino.
Sulle restanti sezioni si concentrano invece le richieste elaborate da Confindustria.
In merito alla tutela delle acque dall'inquinamento, ed in particolare, alla disciplina degli scarichi, si possono individuare due filoni principali:
Il documento industriale presenta come superata l'impostazione tabellare dei limiti agli scarichi e suggerisce la sua sostituzione con “condizioni basate, impianto per impianto, sul rapporto ottimale tra contenimento del carico inquinante e uso di risorse idriche, come nella direttiva IPPC” e con limiti di tipo ponderale, superando le “definizioni di miscelabilità dei reflui (consentita) e di diluizione degli stessi reflui (non consentita), necessaria nella previgente disciplina basata sulle concentrazioni di inquinanti accettabili negli scarichi”.
E' ritenuta inutilmente severa l'impostazione del DM 367/2003 e vi sono sei specifiche richieste di modifica.
Vi sono poi alcune richieste minori più che altro per settori specifici.
Sul punto 1, osserviamo che si tratta di un tema presente da sempre, fin dall'elaborazione della lontana legge Merli (L.319/76 che, ricordiamo, anticipava di molto le direttive europee settoriali), in quanto già allora era ben chiaro il fatto che l'imposizione di limiti allo scarico, basati sulla sola concentrazione dell'inquinante scaricato (a prescindere dalla quantità per unità di tempo) e per di più con una tabella unica su tutto il territorio nazionale, avrebbe consentito solo un approccio di prima approssimazione al problema del risanamento dei nostri fiumi e laghi. Già allora si sapeva che la conoscenza dettagliata del corpo idrico recettore, delle sue condizioni e degli scarichi in atto (che è poi un obiettivo dei piani di tutela) avrebbe consentito di definire un carico massimo ammissibile, sulla base del quale potevano essere meglio stabiliti i limiti puntuali da dare ai singoli scarichi.
Ma è altrettanto chiara l'importanza che, da allora ad oggi, i famosi “numeretti” della tabella hanno avuto, come strumento giuridico oggettivo e semplice che ha consentito, con tutte le sue carenze, un generale miglioramento della situazione di degrado delle nostre acque interne. Sarà forse per questa semplicità ed oggettività che il sistema tabellare è sgradito alle imprese?
Anche senza tirare in ballo la tutela del recettore, le richieste industriali fanno tuttavia riferimento ad un metodo basato sulle migliori tecniche disponibili (di seguito MTD), sulla falsariga della normativa IPPC. In realtà i rischi paventati da Confindustria sull'applicazione di un duplice standard (ponderale e di concentrazione) alle aziende ricadenti in IPPC derivano più dalla discrezionalità dell'autorità competente che dalla normativa, in quanto l'IPPC, di per sé, non impone uno specifico tipo di valori limite di emissione, ma rimanda a tener conto dei documenti BRef comunitari. Peraltro, la fissazione di un limite di concentrazione risulterebbe imprescindibile anche qualora ve ne fosse uno ponderale, in quanto diversamente, pur rispettando le quantità consentite, potrebbero essere effettuati scarichi (magari discontinui) in concentrazioni tali da pregiudicare gli usi delle acque o l'esistenza della fauna acquatica.
Ad ogni modo, Confindustria pretende troppo da una legge, come il D.Lgs.152/2006, priva di uno spirito unitario ed innovativo e consistente in gran parte nella mera incollatura di leggi esistenti: così il tema viene risolto con una modifica dell'Allegato 5 par.1.2.1. La “palla” viene passata interamente alle Regioni, cui si chiede di definire valori limite così concepiti:
un valore in peso per unità di tempo stabilito tenendo conto dei carichi massimi ammissibili (parametro derivante dai complessi studi sul corpo recettore ed in attuazione del Piano di tutela) e delle MTD (parametro invece strettamente derivante dal ciclo produttivo aziendale);
un valore in concentrazione coerente col precedente, nel senso che deve essere non superiore al rapporto tra il valore ponderale e il fabbisogno idrico aziendale (“parametro quest'ultimo che varia in funzione dei singoli processi e stabilimenti”, quindi in ultima analisi un parametro che, in assenza di criteri oggettivi, peraltro molto difficili da stabilire, potrebbe essere indicato solo dall'impresa stessa).
Non sfugge l'estrema complessità del processo; ma soprattutto, è veramente impensabile che questo delicato lavoro sia delegato alle Regioni, in quanto le MTD sono quelle derivate dalla tecnologia corrente e, ai fini della direttiva IPPC, sono state o sono in corso di elaborazione a livello europeo con i già citati documenti tecnici BRef comunitari.
Sarebbe stato quindi logico che a livello nazionale venissero fissati dei valori limite in peso per unità di prodotto in analogia a quanto già è stato fatto con la tabella 3/A per i cicli produttivi coinvolgenti sostanze di particolare pericolosità per l'ambiente acquatico (ripresa dal D.Lgs.152/99), anche considerando che la fissazione di standard minimi nazionali, sia pure soggetti ad eventuale revisione regionale, risponde all'esigenza di evitare distorsioni della concorrenza (tema questo pure sottolineato altrove nel documento industriale).
In merito al punto 2, osserviamo preliminarmente che gli obblighi e divieti di cui si chiede l'eliminazione discendono dal vecchio DM 367/2003 (abrogato di fatto dall'art.78 c.1) e sono relativi ai soli scarichi contenenti le sostanze pericolose ivi individuate, e non sono generali, come il documento industriale lascerebbe intendere.
Le richieste di Confindustria possono essere confrontate punto per punto col decreto. Si tratta delle seguenti:
a) abolire il divieto di uso agricolo dei fanghi biologici provenienti da impianti di depurazione che trattano anche rifiuti liquidi.
Questa proposta risulta accolta al punto f) del paragrafo 1.1. dell'Allegato 5, ove tale utilizzo viene solo subordinato ad un controllo da parte del gestore da prevedere nell'autorizzazione allo scarico.
b) abolire la separazione obbligatoria delle acque di processo dalle acque di raffreddamento, l'installazione obbligatoria di strumenti di controllo in automatico e l'effettuazione di autocontrolli ogni 15 giorni.
Questa proposta è accolta al par.1.2.3. dell'Allegato 5, ove si consente il convogliamento tramite unica condotta, a condizione che si possano verificare i limiti anche a monte della confluenza. Tuttavia si può ritenere che, per un ente di controllo, risulti in questo modo più difficile eseguire controlli a sorpresa dato che, a differenza dello scarico, tale punto è sempre ben interno al perimetro aziendale. L'installazione di strumenti di controllo in automatico ritorna ad essere una prescrizione facoltativa dell'autorità competente ai sensi dell'art.131, mentre gli autocontrolli possono essere prescritti con tempistiche decise dalla medesima autorità competente. Solo su quest'ultimo punto appare condivisibile l'intervento del legislatore, in quanto un'eccessiva rigidezza temporale indifferenziata è poco adeguata alla realtà territoriale degli impianti.
c) abolire l'obbligo, per l'autorità competente, di fissare, sempre per gli scarichi contenenti sostanze pericolose, limiti più restrittivi di quelli nazionali di tabella 3.
Nel par.1.2.3. dell'allegato 5 al decreto, punto 4a), tale obbligo diventa una facoltà, comunque subordinata alle previsioni del Piano di tutela (e quindi inapplicabile in assenza della preventiva approvazione di quest'ultimo).
d) abolire l'obbligo di garantire il rispetto dei limiti a piè d'impianto.
In realtà questo obbligo non escludeva l'effetto dell'impianto di depurazione aziendale, ma si limitava a imporre il rispetto dei limiti per lo scarico in fognatura della Tabella 3 senza possibilità di deroghe, le quali sono invece possibili per gli impianti i cui scarichi non contengono sostanze pericolose.
La richiesta risulta accolta visto che di questa disposizione non vi è più traccia nel testo unico.
e) abolire l'obbligo, sempre per le imprese con scarichi contenenti sostanze pericolose, di dotarsi delle migliori tecniche disponibili.
Anche questa richiesta è accolta, in quanto il decreto si limita a ribadire, in modo del tutto pleonastico (art.108 c.3) che le MTD sono obbligatorie per gli impianti ricadenti nella normativa IPPC, cosa già prevista da quest'ultima.
f) infine e soprattutto, ridurre il numero di sostanze disciplinate.
A questo proposito, le tabelle del DM 367/2003 perdono oggi rilevanza e tutte le disposizioni del D.Lgs.152/2006 intendono per sostanze pericolose quelle delle tabelle 3/A e 5, cioè solo quelle già previste dal vecchio D.Lgs.152/99. In realtà, il DM 367/2003 dava attuazione alla direttiva quadro 2000/60/Ce del Parlamento e del Consiglio ed alla decisione n. 2455/2001/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, e per le sostanze individuate come prioritarie in sede comunitaria occorrerà comunque (salvo esporsi ad ormai consuete procedure di infrazione) attivare programmi per consentire l'ottenimento di standard di qualità delle acque, senza poter contare sugli strumenti di prevenzione alla fonte (lo scarico) che il DM 367/2003 prima forniva.
Le altre indicazioni del documento, sempre relative agli scarichi, riguardano poi:
la richiesta di definire norme specifiche per gli scarichi di acque termali.
Richiesta che viene accolta con l'introduzione del punto f) comma 7 art.101, con il quale detti scarichi sono assimilati alle acque reflue domestiche (e come tali, esentati dall'obbligo di autorizzazione se recapitano in rete fognaria), dell'art.102, con il quale detti scarichi sono ammessi nelle acque superficiali, nel suolo e sottosuolo, in fognatura bianca o mista, e sono stabilite deroghe agli scarichi nel caso in cui all'origine alcuni parametri chimici siano già superiori ai valori limite di emissione. L'eventuale disciplina autorizzatoria è demandata alle Regioni con l'art.124 comma 5.
la richiesta di soluzione per il problema dei solidi sospesi negli scarichi delle cave sotto falda.
E' una problematica che sembra trovare accoglimento nel nuovo comma 4 dell'art.104. Tra le deroghe al divieto di scarico diretto nelle acque sotterranee, compare infatti ora quella dello scarico “nella stessa falda delle acque utilizzate per il lavaggio e la lavorazione degli inerti”.
A garanzia della tutela della falda, l'autorizzazione è concessa solo previo parere vincolante dell'ARPA competente, che deve accertare la composizione dei fanghi e giudicare l'impatto sulla falda trascurabile. Non vi sono limiti generali allo scarico di queste acque, come tutti quelli nel sottosuolo (poiché sono in generale vietati) ma solo il vincolo che “i relativi fanghi siano costituiti esclusivamente da acqua ed inerti naturali” e quello del non danneggiamento della falda.
In merito alla gestione delle risorse idriche, la posta in gioco per l'associazione degli industriali è molto alta per un diverso ordine di motivi.
E' infatti noto che la privatizzazione/liberalizzazione dei servizi pubblici, in particolare di quelli a rilevanza locale, è ad oggi una delle grandi questioni all'ordine del giorno dell'agenda politica, con richieste in tal senso che si levano da più parti, sempre, beninteso, con il solo fine di assicurare un migliore servizio e minori prezzi per il cittadino/consumatore attraverso la concorrenza e la – salvifica – gestione privata. Tra questi servizi è compresa anche l'acqua, cioè la gestione del servizio idrico integrato.
Ad oggi il quadro normativo, che fin dalla legge Galli ha avviato il processo di privatizzazione delle aziende ex-municipalizzate, individua quale modalità preferita di gestione quella dell'affidamento a società di capitali privata o mista, mediante gara ad evidenza pubblica: l'impostazione scelta è quella che prevede un'Autorità d'Ambito, alla quale partecipano i Comuni ricadenti nell'Ambito Territoriale Ottimale (ATO), con funzioni di supervisione e controllo e di pianificazione infrastrutturale e tariffaria. Essa affianca la società con funzioni di gestore del servizio, che acquisisce in concessione d'uso tutte le infrastrutture e i mezzi e gestisce l'erogazione del servizio e la rete. Esiste tuttavia l'opzione della cosiddetta scelta “in-house”, potendo il servizio essere affidato in via diretta a società interamente pubblica come scelta residuale ed a condizioni restrittive tese ad evitare che tale soggetto diventi un competitor sul mercato dell'acqua al di fuori dell'ambito di attività locale.
Va ricordato che tale opzione è stata sostanzialmente reintrodotta, dopo che la legge Finanziaria 2002 obbligava alla modalità della gara ed alla trasformazione in S.p.A. delle aziende rimaste pubbliche; sebbene a volte siano stati riscontrati abusi (nel senso che la società affidataria non aveva tutti i requisiti per poter ricevere un affidamento in-house), essa rappresenta l'unico strumento normativo in mano ai Comuni che si oppongono alla privatizzazione del servizio idrico, in base ad una scuola di pensiero, ormai piuttosto matura, che ne reclama la gestione pubblica, partecipata e su basi non mercantili.
Ben diversa è naturalmente l'impostazione del documento industriale.
Confindustria tenta di utilizzare il riordino ambientale per accentuare l'impostazione della gestione privatistica. Afferma il documento: “La forma di gestione [...] deve essere la gara [...] assicurando una liberalizzazione del settore pari a quella effettuata per il gas, energia e trasporti. In alternativa, si può prendere in considerazione l'affidamento diretto alla società mista, il cui socio privato è scelto con gara [...] sulla base di un piano industriale”. Solo in via residuale, rimane la possibilità dell'affidamento diretto a società pubblica.
Detta impostazione è ripresa dall'art.150 del decreto, che mantiene la gerarchia indicata e fa riferimento all'art.113 del TUEL. Va comunque rimarcato il fatto che l'obbligo di “messa sul mercato” del servizio idrico integrato non è previsto dal D.Lgs.152/2006.
Un'altra questione rilevante, ma già risolta dai recenti interventi legislativi, è quella dell'Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti, introdotta dall'art.159 e seguenti, già abrogati dal primo decreto correttivo oggi in vigore (D.Lgs. 8 novembre 2006, n. 284) in seguito alle richieste della Conferenza unificata.
Tale Autorità sostituiva il Comitato per la vigilanza sull'uso delle risorse idriche istituito dalla L.Galli, aveva componenti tutti di nomina governativa, ed un compito di portata estremamente ampia: quello di “assicurare l'osservanza, da parte di qualsiasi soggetto pubblico e privato, dei principi e delle disposizioni di cui alle parti terza e quarta del [...] decreto” (mentre il vecchio Comitato si occupava delle sole questioni relative al servizio idrico integrato).
Tale Authority, come fatto osservare da Regioni ed enti locali, non era prevista dalla legge delega.
Era però prevista dal documento industriale, che, al fine di assicurare il miglior funzionamento del sistema concorrenziale del servizio idrico integrato, prevedeva, tra due ipotesi, proprio l'istituzione dell'Autorità (anche se pensata solo per il servizio idrico e non per l'intera materia delle acque).
Altri aspetti della Sezione III, differenti rispetto alla formulazione della Legge Galli, che meritano qualche nota sono i seguenti.
L'art.144 non definisce più “pubbliche” le acque superficiali e sotterranee, ma si limita ad affermare che “appartengono al demanio dello Stato”.
Lasciando ai giuristi la valutazione se si tratti di una mera sostituzione terminologica o se vi siano concrete conseguenze giuridiche, ci limitiamo ad osservare che ai sensi dell'art.822 c.c., la modifica sembra ricondurre le acque nel novero dei beni qualificati demaniali in quanto “sono dalla legge assoggettati al regime proprio del demanio pubblico” (secondo comma ultimo periodo) e non più in quanto “acque definite pubbliche dalle leggi in materia” (primo comma). Infatti il testo unico non definisce più pubbliche tali acque, ed ha abrogato la legge Galli che invece conteneva questa definizione: ciò sembra strano considerato che il codice civile prevede proprio la dichiarazione di “pubblicità” per la sola categoria delle acque – tra tutti i beni potenzialmente demaniali – come condizione per appartenere appunto al demanio.
Ma forse il solo motivo per detta sostituzione può essere ravvisato nell'”allergia” di questo legislatore per la qualifica di un bene come pubblico, poco in linea con gli obiettivi ed il tenore di questa legge.
Curiosa è poi la definizione di Autorità d'Ambito, che non esisteva nella Legge Galli.
Infatti, pur essendo l'autorità di pianificazione e regolazione del servizio nell'ATO individuato dalla Regione, che acquisisce i poteri pubblici prima di competenza dei Comuni, l'art.148 si limita a dire che “è una struttura dotata di personalità giuridica [...] alla quale gli enti locali partecipano obbligatoriamente.”.
Il legislatore ha dimenticato la parola “pubblica”, accanto al termine “personalità giuridica”, oppure vuole intendere che l'Autorità d'ambito può essere un soggetto partecipato da privati? Inoltre, se gli enti locali partecipano all'Autorità ma non la costituiscono, chi sono gli altri soggetti partecipanti?
Affidare i poteri dell'Autorità d'Ambito a un soggetto che può essere di natura pubblico/privata significa forse un passo ulteriore verso la dismissione delle prioritarie funzioni pubbliche come quelle della ricognizione delle risorse e degli investimenti, della definizione della tariffa e della sua corretta modulazione nel rispetto di principi di progressività ed equità?
Di contro, il comma 4 dell'art.148 è invece preciso e perentorio sui costi di funzionamento dell'Autorità, che “fanno carico agli enti locali [...] in base alle quote di partecipazione di ciascuno di essi ”. Quindi si dà la possibilità (sia pure per ora del tutto teorica) della creazione di una struttura a partecipazione privata i cui costi, però, sono sin d'ora e per legge posti interamente a carico della finanza pubblica.
Nella convinzione che pericolose ambiguità come queste rimarranno lettera morta nella pratica applicazione, va precisato infine che il comma 2 dell'art.148 affida alle Regioni la facoltà di disciplinare la cooperazione tra i Comuni ai fini della costituzione dell'Autorità d'Ambito.
Ancora, si fa osservare che dai contenuti della Convenzione tra Autorità d'Ambito e gestore scompare l'obbligo (di cui alla L.Galli) di prevedere la facoltà di riscatto da parte degli enti locali o dell'Autorità stessa.
Infine, l'art.153 ha previsto l'affidamento in concessione d'uso gratuita delle reti e infrastrutture idriche al gestore del servizio. Questa norma è stata oggetto di critiche da parte delle autonomie locali in quanto non tiene conto degli eventuali oneri di ammortamento degli interventi realizzati e non riconosce ai Comuni alcun corrispettivo per opere realizzate a proprie spese.
Concludendo le considerazioni relative alla gestione del servizio idrico integrato, si può affermare che il decreto, nel confermare l'impostazione della normativa previgente accentuandone, come richiesto da Confindustria, la preferenza privatistica, è andato anche al di là minando alcuni capisaldi di principio della vecchia legge Galli, sempre nel senso dell'ingresso potenziale di soggetti privati in tutte le fasi della gestione e dell'agevolazione di questi con l'eliminazione di alcuni oneri e garanzie prima dovuti all'ente locale.
Il documento industriale si occupa anche di risparmio idrico.
Senza dire la cosa più logica: occorre aumentare i canoni di concessione delle acque pubbliche ad uso industriale che oggi sono risibili e rendono economicamente conveniente l'uso dell'acqua di falda senza badare a sprechi (come non succede per l'energia, che ha costi alti e crescenti, per la quale il settore industriale è sicuramente il più attento nel risparmio delle risorse primarie).
Una simile miglioria, misura di leva fiscale atta ad incentivare un comportamento virtuoso, sarebbe molto più efficace e semplice da controllare che non le macchinose previsioni della vecchia L. Galli, sulla riduzione del canone in caso di cicli chiusi o di restituzione delle acque di scarico con la medesima qualità di quelle prelevate.
Per quanto riguarda poi le categorie d'uso, il documento ne chiede la revisione introducendo una sorta di categoria per uso umano ma non potabile. Tuttavia, non è modificando le definizioni che si attua il risparmio di acqua potabile nell'uso domestico, ma piuttosto incentivando in edilizia l'applicazione di soluzioni virtuose di riciclo interno all'abitazione oppure, ma con investimenti enormi, realizzando reti duali di adduzione.
Corretta appare invece la richiesta di garantire almeno una tariffazione base del canone uniforme a livello nazionale.
Nel decreto questi aspetti, abolite le specifiche previsioni della L.Galli, sono demandati agli interventi legislativi regionali di cui all'art.146.
A conclusione di questa breve disamina, relativa alla Parte III del D.Lgs.152/2006 in tema di acque, si può affermare che le istanze industriali di piccola-media portata sono state prese in grande considerazione e spesso accolte senza ulteriori modifiche. Invece, le istanze che avrebbero richiesto un significativo sforzo elaborativo del tutto al di là delle capacità di questa legge, sono state appena accennate o rimandate al futuro.
Francesco Nannetti
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“Legge delega per il riordino della normativa ambientale. Proposte industriali (11 Maggio 2005)”
L'analisi comprende il testo della parte terza e l'Allegato 5, che è quello di più diretto interesse industriale in quanto detta le norme tecniche principali sugli scarichi idrici.
Con l'esclusione del comma 6 dell'art.22 L.Galli
Almeno dopo il tramonto delle ipotesi di privatizzazione delle funzioni di difesa del suolo valutate nella scorsa legislatura.
Nella quale è appena il caso di osservare che, per volontà od errore materiale, è stata stravolta la nota (**) ove si afferma che “per i cicli produttivi che hanno uno scarico della sostanza pericolosa in questione, minore al quantitativo annuo indicato nello schema seguente, le autorità competenti all'autorizzazione possono evitare il procedimento autorizzativo” Invece nell'originaria formulazione della nota alla medesima tabella del D.Lgs.152/99, l'esenzione si riferiva al procedimento autorizzativo “aggravato” legato alla presenza di sostanze pericolose nel ciclo produttivo (attualmente art.108 e art.125 c.2 del TU) ma non, ovviamente, alla possibilità che lo scarico non sia autorizzato. Analoghi errori o volute omissioni sono presenti nello schema seguente, che stabilisce le soglie di detta esenzione, con riferimento a cadmio, aldrin, dieldrin, endrin, isodrin e triclorobenzene.
Uno dei “prodotti” di questa scuola di pensiero sostenuta, tra gli altri, dai giuristi Marco Manunta ed Emilio Molinari, è l'elaborazione di una proposta di legge di iniziativa popolare, la cui campagna ha avuto inizio nel mese di Gennaio 2007, che ha come proposta cardine la ripubblicizzazione della gestione del servizio idrico integrato.